Conferenza
stampa di
Mons. Marcel Lefebvre
in vista delle consacrazioni episcopali del 30 giugno 1988
Ecône, 15 giugno 1988
Mons. Marcel Lefebvre
in vista delle consacrazioni episcopali del 30 giugno 1988
Ecône, 15 giugno 1988
Ci siamo permessi di invitarvi come
già abbiamo fatto tredici anni fa, nel 1975, al momento di
avvenimenti difficili fra Roma ed Ecône e che ci riguardavano.
Siamo di nuovo, si potrebbe dire, ad un’estate calda.
Prima di arrivare agli avvenimenti di questi ultimi giorni e dei giorni prossimi, vorrei prima di tutto farvi una piccola esposizione, così che comprendiate meglio la situazione e nei resoconti che scriverete nei giornali possiate riportare, in quanto possibile, dei racconti obiettivi.
Occorre piazzare gli avvenimenti che accadono oggi e che accadranno domani – in particolare la consacrazione episcopale dei quattro giovani vescovi del 30 giugno – nel contesto delle nostre difficoltà con Roma, non solo dopo il 1970, dopo la fondazione di Ecône, ma dopo il Concilio.
Al Concilio, io e in certo numero di vescovi abbiamo lottano contro il modernismo e contro gli errori che stimavamo inammissibili e incompatibili con la fede cattolica. Il problema di fondo è questo. Si tratta di un’opposizione formale, profonda, radicale, contro le idee moderne e moderniste che sono passate attraverso il Concilio.
Voi mi direte: ma cos’è che vuole dire con questo?
Ebbene, vi citerò alcuni elementi di questo modernismo. Per esempio l’accettazione dei Diritti dell’Uomo del 1789.
Parlo del diritto comune nella società civile di tutte le religioni, cioè il principio della laicità dello Stato.
Parlo dell’ecumenismo o l’associazione di tutte le religioni. È Assisi, è Kyoto, sono le visite alla Sinagoga, al tempio protestante.
E nella Chiesa, parlo della collegialità, con i sinodi, con le conferenze episcopali, parlo del cambiamento della liturgia, del cambiamento della catechesi, dell’aumento della partecipazione dei laici e delle donne negli ambiti religiosi.
Voi ne avete parlato nei vostri giornali, conoscete bene queste cose, perché tutto questo è apparso in occasione dei sinodi di Roma.
Prima di arrivare agli avvenimenti di questi ultimi giorni e dei giorni prossimi, vorrei prima di tutto farvi una piccola esposizione, così che comprendiate meglio la situazione e nei resoconti che scriverete nei giornali possiate riportare, in quanto possibile, dei racconti obiettivi.
Occorre piazzare gli avvenimenti che accadono oggi e che accadranno domani – in particolare la consacrazione episcopale dei quattro giovani vescovi del 30 giugno – nel contesto delle nostre difficoltà con Roma, non solo dopo il 1970, dopo la fondazione di Ecône, ma dopo il Concilio.
Al Concilio, io e in certo numero di vescovi abbiamo lottano contro il modernismo e contro gli errori che stimavamo inammissibili e incompatibili con la fede cattolica. Il problema di fondo è questo. Si tratta di un’opposizione formale, profonda, radicale, contro le idee moderne e moderniste che sono passate attraverso il Concilio.
Voi mi direte: ma cos’è che vuole dire con questo?
Ebbene, vi citerò alcuni elementi di questo modernismo. Per esempio l’accettazione dei Diritti dell’Uomo del 1789.
Parlo del diritto comune nella società civile di tutte le religioni, cioè il principio della laicità dello Stato.
Parlo dell’ecumenismo o l’associazione di tutte le religioni. È Assisi, è Kyoto, sono le visite alla Sinagoga, al tempio protestante.
E nella Chiesa, parlo della collegialità, con i sinodi, con le conferenze episcopali, parlo del cambiamento della liturgia, del cambiamento della catechesi, dell’aumento della partecipazione dei laici e delle donne negli ambiti religiosi.
Voi ne avete parlato nei vostri giornali, conoscete bene queste cose, perché tutto questo è apparso in occasione dei sinodi di Roma.
Parlo della negazione del passato della Chiesa. Vi è una lotta condotta all’interno
della Chiesa per farne sparire il passato, per fare sparire la
Tradizione della Chiesa.
Parlo di questa continua persecuzione contro coloro che vogliono restare cattolici, come lo erano i papi prima del Vaticano II.
Ecco qual è la nostra posizione. Noi continuiamo ciò che i papi hanno insegnato e hanno fatto prima del Vaticano II. Noi ci opponiamo a ciò che adesso hanno fatto i papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, perché hanno compiuto una rottura con i loro predecessori. Noi preferiamo la Tradizione della Chiesa all’opera di pochi papi che si oppongono ai loro predecessori.
Tuttavia, nel corso di questi anni abbiamo voluto conservare i contatti con Roma, da dopo il 1976, quando abbiamo ricevuto la «sospensione a divinis» perché continuavamo a fare delle ordinazioni sacerdotali. Abbiamo voluto conservare i contatti con Roma sperando che la Tradizione ritrovasse un giorno i suoi diritti. Ma è stato tempo perso.
Di fronte al rifiuto di Roma di prendere in considerazione le nostre proteste e le nostre richieste di ritorno alla Tradizione e al cospetto della mia età – poiché io oggi ho 82 anni, sono nel mio 83 anno, ed è evidente che sento avvicinarsi la fine – mi serve un successore. Non posso lasciare cinque seminari sparsi nel mondo senza un vescovo che possa ordinare questi seminaristi, poiché non si possono fare dei sacerdoti senza un vescovo. E fintanto che non ci sarà un accordo con Roma, non ci sarà alcun vescovo che accetterà di fare delle ordinazioni. Dunque mi trovo in un assoluto vicolo cieco e di fronte ad una scelta: o morire e lasciare i miei seminaristi nell’abbandono, lasciare orfani i miei seminaristi, o fare dei vescovi. Non ho scelta.
Allora ho chiesto a Roma più volte: lasciatemi fare dei vescovi, permettetemi di avere dei successori. È per questo che lo scorso 29 giugno [1987] ha fatto un’allusione chiara nella mia predica qui a Ecône in occasione dell’ordinazione dei seminaristi. Dissi che avrei fatto delle consacrazioni episcopali perché Roma non vuole ascoltarmi, non vuol capire e ci abbandona. Io mi vedo obbligato a darmi dei successori. Di conseguenza il prossimo 25 ottobre consacrerò dei vescovi per la mia successione.
Grande agitazione a Roma!
Fu a partire da quella dichiarazione che Roma si è smossa, profondamente, e così ho ricevuto una lettera il 28 luglio, dopo aver incontrato il cardinale Ratzinger il 14 luglio, al quale dissi: «o Roma mi permette di fare dei vescovi o me li faccio da me». Nella sua lettera del 28 luglio il cardinale Ratzinger mi rispose: «Per quanto riguarda i vescovi bisogna attendere che la vostra Fraternità venga riconosciuta. Per il resto, possiamo forse farvi delle concessioni, sulla liturgia, sull’esistenza dei vostri seminari e poi come di regola inviarvi un visitatore».
In effetti, io avevo chiesto una visita perché ci conoscessero, visto che non ci conoscono, che non vengono a vederci. Vi è stata dunque un’apertura da parte di Roma, in quel momento.
Confesso che ho molto esitato. Dovevo accettare questa apertura o dovevo rifiutarla? Ero molto portato a rifiutarla perché non ho alcuna fiducia in queste autorità romane, devo dirlo, poiché le loro idee sono completamente opposte alle nostre. Non siamo affatto sulla stessa lunghezza d’onda, dunque non avevo alcuna fiducia.
Siamo sempre stati perseguitati, era ancora l’epoca di Port-Marly, della persecuzione di Don Lecareux per le sue parrocchie, approvate da Roma peraltro, visto che i vescovi sono approvati da Roma. Tutto questo non ci ispirava affatto la fiducia di metterci nelle mani di Roma, di una Roma che combatteva la Tradizione.
Tuttavia abbiamo voluto fare uno sforzo: proviamo, andiamo a vedere quali possono essere le disposizioni di Roma nei nostri confronti. È con questo spirito che sono andato a Roma e che in seguito abbiamo ricevuto la visita del cardinale Gagnon. Sembra che questa visita sia stata favorevole. Confesso che non ne so niente, poiché non ho ricevuto una sola parola sul risultato di questa visita che ha avuto luogo sette mesi fa. L’ho detto al cardinale Ratzinger: è inammissibile. Si effettua una visita per sapere se noi facciamo bene, se facciamo male, se ci sono dei rimproveri da muoverci, se ci sono dei complimenti da farci, e non ci si dice niente. Non ho saputo niente della visita del 1974 dei due prelati belgi che sono venuti a visitare il seminario già quattordici anni fa. Non mi è mai arrivata una sola riga che mi dicesse quale fosse stato il risultato di quella visita.
Allora, il cardinale Gagnon è venuto e in seguito ci sono stati proposti dei colloqui per realizzare un protocollo che predisponesse un accordo destinato a mettere in essere le istituzioni che avrebbero retto la Tradizione.
E questi colloqui ci sono stati.
Confesso che io stesso avrei voluto partecipare al primo di questi colloqui, ma loro hanno preferito che io non ci fossi e che designassi un teologo e un canonista. È quello che feci. Designai Don Tissier de Mallerais e Don Laroche perché si recassero a Roma, per incontrarsi con i rappresentanti del cardinale Ratzinger. Questi erano in tre: un teologo, un canonista e il Padre Duroux che presiedeva la riunione.
Una prima redazione venne approntata dopo quarantotto ore, essa regolava le questioni dottrinali e le questioni disciplinari. Noi fummo sorpresi di vedere che volevano farci firmare un testo dottrinale. Dopo l’apertura dimostrata l’anno prima dal cardinale Ratzinger con la sua lettera del 28 luglio, non erano più in ballo dei problemi dottrinali. Fummo quindi un po’ sorpresi che ci si rimettesse sotto gli occhi ciò che era stato oggetto di incomprensioni per quindici anni.
La nostra opposizione era dovuta precisamente a questioni dottrinali. Ma dal momento che l’articolo 3 della parte dottrinale del protocollo assicurava che potevamo riconoscere che nel Concilio, nella liturgia e nel Diritto Canonico, vi fossero dei punti che non erano perfettamente conciliabili con la Tradizione, la cosa ci soddisfaceva. In qualche modo ci si dava soddisfazione su questi punti. Questo ci permetteva di discutere certi punti del Concilio, della liturgia e del Diritto Canonico. Fu questo che ci permise di firmare questo protocollo dottrinale, senza il quale non l’avremmo firmato.
E poi si giunse alle questioni disciplinari. Vi era soprattutto la questione del vescovo, quella di un ufficio a Roma, nel quale Roma avrebbe avuto cinque membri e noi solo due. La cosa non ci piaceva molto. Discutemmo del fatto che in pratica eravamo messi in minoranza in questo ufficio di Roma, ma d’altra parte, in una certa misura eravamo esenti dalla giurisdizione dei vescovi.
Nel corso di una seconda riunione, questa volta con il cardinale Ratzinger e io stesso, insieme con i diversi teologi e canonisti, che avevano già discusso tra loro, giungemmo ad una conclusione accettabile, sulla carta.
Il cardinale Ratzinger firmò subito: io firmai ad Albano il 5 maggio.
Così il protocollo fu firmato.
Parlo di questa continua persecuzione contro coloro che vogliono restare cattolici, come lo erano i papi prima del Vaticano II.
Ecco qual è la nostra posizione. Noi continuiamo ciò che i papi hanno insegnato e hanno fatto prima del Vaticano II. Noi ci opponiamo a ciò che adesso hanno fatto i papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, perché hanno compiuto una rottura con i loro predecessori. Noi preferiamo la Tradizione della Chiesa all’opera di pochi papi che si oppongono ai loro predecessori.
Tuttavia, nel corso di questi anni abbiamo voluto conservare i contatti con Roma, da dopo il 1976, quando abbiamo ricevuto la «sospensione a divinis» perché continuavamo a fare delle ordinazioni sacerdotali. Abbiamo voluto conservare i contatti con Roma sperando che la Tradizione ritrovasse un giorno i suoi diritti. Ma è stato tempo perso.
Di fronte al rifiuto di Roma di prendere in considerazione le nostre proteste e le nostre richieste di ritorno alla Tradizione e al cospetto della mia età – poiché io oggi ho 82 anni, sono nel mio 83 anno, ed è evidente che sento avvicinarsi la fine – mi serve un successore. Non posso lasciare cinque seminari sparsi nel mondo senza un vescovo che possa ordinare questi seminaristi, poiché non si possono fare dei sacerdoti senza un vescovo. E fintanto che non ci sarà un accordo con Roma, non ci sarà alcun vescovo che accetterà di fare delle ordinazioni. Dunque mi trovo in un assoluto vicolo cieco e di fronte ad una scelta: o morire e lasciare i miei seminaristi nell’abbandono, lasciare orfani i miei seminaristi, o fare dei vescovi. Non ho scelta.
Allora ho chiesto a Roma più volte: lasciatemi fare dei vescovi, permettetemi di avere dei successori. È per questo che lo scorso 29 giugno [1987] ha fatto un’allusione chiara nella mia predica qui a Ecône in occasione dell’ordinazione dei seminaristi. Dissi che avrei fatto delle consacrazioni episcopali perché Roma non vuole ascoltarmi, non vuol capire e ci abbandona. Io mi vedo obbligato a darmi dei successori. Di conseguenza il prossimo 25 ottobre consacrerò dei vescovi per la mia successione.
Grande agitazione a Roma!
Fu a partire da quella dichiarazione che Roma si è smossa, profondamente, e così ho ricevuto una lettera il 28 luglio, dopo aver incontrato il cardinale Ratzinger il 14 luglio, al quale dissi: «o Roma mi permette di fare dei vescovi o me li faccio da me». Nella sua lettera del 28 luglio il cardinale Ratzinger mi rispose: «Per quanto riguarda i vescovi bisogna attendere che la vostra Fraternità venga riconosciuta. Per il resto, possiamo forse farvi delle concessioni, sulla liturgia, sull’esistenza dei vostri seminari e poi come di regola inviarvi un visitatore».
In effetti, io avevo chiesto una visita perché ci conoscessero, visto che non ci conoscono, che non vengono a vederci. Vi è stata dunque un’apertura da parte di Roma, in quel momento.
Confesso che ho molto esitato. Dovevo accettare questa apertura o dovevo rifiutarla? Ero molto portato a rifiutarla perché non ho alcuna fiducia in queste autorità romane, devo dirlo, poiché le loro idee sono completamente opposte alle nostre. Non siamo affatto sulla stessa lunghezza d’onda, dunque non avevo alcuna fiducia.
Siamo sempre stati perseguitati, era ancora l’epoca di Port-Marly, della persecuzione di Don Lecareux per le sue parrocchie, approvate da Roma peraltro, visto che i vescovi sono approvati da Roma. Tutto questo non ci ispirava affatto la fiducia di metterci nelle mani di Roma, di una Roma che combatteva la Tradizione.
Tuttavia abbiamo voluto fare uno sforzo: proviamo, andiamo a vedere quali possono essere le disposizioni di Roma nei nostri confronti. È con questo spirito che sono andato a Roma e che in seguito abbiamo ricevuto la visita del cardinale Gagnon. Sembra che questa visita sia stata favorevole. Confesso che non ne so niente, poiché non ho ricevuto una sola parola sul risultato di questa visita che ha avuto luogo sette mesi fa. L’ho detto al cardinale Ratzinger: è inammissibile. Si effettua una visita per sapere se noi facciamo bene, se facciamo male, se ci sono dei rimproveri da muoverci, se ci sono dei complimenti da farci, e non ci si dice niente. Non ho saputo niente della visita del 1974 dei due prelati belgi che sono venuti a visitare il seminario già quattordici anni fa. Non mi è mai arrivata una sola riga che mi dicesse quale fosse stato il risultato di quella visita.
Allora, il cardinale Gagnon è venuto e in seguito ci sono stati proposti dei colloqui per realizzare un protocollo che predisponesse un accordo destinato a mettere in essere le istituzioni che avrebbero retto la Tradizione.
E questi colloqui ci sono stati.
Confesso che io stesso avrei voluto partecipare al primo di questi colloqui, ma loro hanno preferito che io non ci fossi e che designassi un teologo e un canonista. È quello che feci. Designai Don Tissier de Mallerais e Don Laroche perché si recassero a Roma, per incontrarsi con i rappresentanti del cardinale Ratzinger. Questi erano in tre: un teologo, un canonista e il Padre Duroux che presiedeva la riunione.
Una prima redazione venne approntata dopo quarantotto ore, essa regolava le questioni dottrinali e le questioni disciplinari. Noi fummo sorpresi di vedere che volevano farci firmare un testo dottrinale. Dopo l’apertura dimostrata l’anno prima dal cardinale Ratzinger con la sua lettera del 28 luglio, non erano più in ballo dei problemi dottrinali. Fummo quindi un po’ sorpresi che ci si rimettesse sotto gli occhi ciò che era stato oggetto di incomprensioni per quindici anni.
La nostra opposizione era dovuta precisamente a questioni dottrinali. Ma dal momento che l’articolo 3 della parte dottrinale del protocollo assicurava che potevamo riconoscere che nel Concilio, nella liturgia e nel Diritto Canonico, vi fossero dei punti che non erano perfettamente conciliabili con la Tradizione, la cosa ci soddisfaceva. In qualche modo ci si dava soddisfazione su questi punti. Questo ci permetteva di discutere certi punti del Concilio, della liturgia e del Diritto Canonico. Fu questo che ci permise di firmare questo protocollo dottrinale, senza il quale non l’avremmo firmato.
E poi si giunse alle questioni disciplinari. Vi era soprattutto la questione del vescovo, quella di un ufficio a Roma, nel quale Roma avrebbe avuto cinque membri e noi solo due. La cosa non ci piaceva molto. Discutemmo del fatto che in pratica eravamo messi in minoranza in questo ufficio di Roma, ma d’altra parte, in una certa misura eravamo esenti dalla giurisdizione dei vescovi.
Nel corso di una seconda riunione, questa volta con il cardinale Ratzinger e io stesso, insieme con i diversi teologi e canonisti, che avevano già discusso tra loro, giungemmo ad una conclusione accettabile, sulla carta.
Il cardinale Ratzinger firmò subito: io firmai ad Albano il 5 maggio.
Così il protocollo fu firmato.